Dopo il Dialogo di Timandro e di Eleandro, c’è un intervallo di circa mezzo mese che va dal 24 giugno fino al 6 luglio 1824 (che non può però essere considerato, come hanno creduto alcuni studiosi, come la riprova sicura della volontà leopardiana di concludere le Operette con questo dialogo), dopo il quale il Leopardi scrive Il Parini, ovvero della gloria, che occupò a lungo, anche per la stessa sua lunghezza materiale, lo scrittore: dal 6 luglio al 13 agosto.
Questa operetta (che, tra l’altro, abbandonava il taglio del dialogo su cui Leopardi aveva insistito soprattutto nella serie piú intensa delle Operette morali fino al Dialogo di Timandro e di Eleandro) è costruita come un lungo discorso-dimostrazione che un personaggio, il Parini, storico e idealizzato insieme, pronuncia ad ammonimento di un suo giovane scolaro che si volge alla letteratura e tende ardentemente alla gloria.
Il Leopardi qui si applica, attraverso la voce del Parini, a demolire, in una dimostrazione sottile, continua, esauriente, che vuol stringere tutti i particolari possibili (magari qualche volta sfiorando e toccando il paradosso) il mito, il desiderio e la speranza della gloria, che tanta importanza aveva avuto per il giovane scrittore. È quindi un’altra operetta legata al filo del “no”, della demolizione e del denudamento della verità, contro illusioni e miti razionalmente insostenibili, e si conclude al solito in una forma fortemente negativa, anche se con una certa impennata virile, severa, dignitosa e stoica (l’accettazione del proprio fato «con animo forte e grande»), diversa dall’atteggiamento di decisa lotta contro il fato che sarà predominante nel Leopardi piú tardo e che in parte era stato anche del Leopardi giovanile e appassionato (si pensi al Bruto minore a cui il poeta si rifà per il suo atteggiamento contro il fato nella celebre lettera al De Sinner del ’32).
Nell’operetta (i cui dodici paragrafi portano tutti nuovi contributi alla dimostrazione della vanità della gloria) rifluiscono anche tanti altri tipici elementi leopardiani: ma strettamente intrecciati a una specie di “esame di coscienza” del letterato Leopardi, la cui riflessione sui fatti estetici (la poesia, lo scrittore, il lettore, lo stile) raggiunge qui un’estrema acutezza, tanto che Il Parini è non poco significativo per la stessa poetica leopardiana di questo periodo.
La ricchezza di questa operetta è dovuta proprio all’intreccio tra il suo principale motivo (la dimostrazione della vanità della gloria con l’identificazione di tutti gli ostacoli che si frappongono al suo acquisto e, nello stesso tempo, della nullità del frutto che se ne può ricavare) e la descrizione sottilissima di tutta quella imponente meditazione sulla poesia, la lingua, lo stile, sui rapporti tra filosofia e poesia, già affrontata soprattutto tra il settembre e il novembre 1823 nello Zibaldone, e che qui trova la sua traduzione piú sistematica e ulteriormente sviluppata.
La scelta del personaggio è ben significativa, perché il Leopardi aveva riconosciuto nel Parini un’alta coscienza di letterato, di artista e di uomo morale: il Parini delle grandi odi, di Alla Musa e della Caduta[1], che gli permetteva anche di aprire un’implicita ed esplicita polemica contro tanta letteratura contemporanea; da una parte, contro il formalismo di tanto classicismo e neoclassicismo, e dall’altra contro la sciatteria e la semplice fiducia nei contenuti astratti del romanticismo. Il Parini era la figura che rappresentava una tradizione (da Parini ad Alfieri attraverso Foscolo fino a Leopardi) da cui era escluso tutto il coté di tipo montiano e il coté piú tipicamente romantico.
L’operetta si apre con un breve ritratto del protagonista che enuncia esigenze tipicamente leopardiane tra loro inseparabili, come l’«eccellenza nelle lettere», la «profondità dei pensieri», la «molta notizia ed uso della filosofia presente», la conoscenza degli «uomini e le cose loro» preliminare e prevalente nell’«eloquenza e [...] poesia».
Il discorso del Parini è articolato in capitoletti, il primo dei quali viene a portare in primo piano il tema dei grandi ostacoli che si frappongono all’acquisto della gloria, possibile agli uomini moderni solo attraverso gli studi, mentre nell’epoca antica, fervida di attività, la gloria si poteva raggiungere anche attraverso le azioni. Si limita cosí l’ambito e il senso della gloria. Ma d’altra parte questo tema fondamentale è intrecciato e arricchito dal confronto fra antichi e moderni, che permette al Leopardi di approfondire le sue prospettive letterarie, in particolare affermando alfierianamente che gli scrittori, i veri, i grandi scrittori sono tali solo se per loro natura sono inclinati inizialmente all’agire.
Il personaggio Parini si arricchisce cosí non solo di aspetti ed esigenze del Leopardi ma anche dell’Alfieri (del quale fra l’altro qui è fatto il nome)[2], sebbene dell’Alfieri non ritragga l’accento impetuoso, ma si tenga al tono di saggezza, di dignità, di severità piú congeniale alla moralità pariniana:
[...] niun ingegno è creato dalla natura agli studi; né l’uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i piú degli scrittori eccellenti, e massime de’ poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtú di farne.[3]
Il grande scrittore è implicitamente un uomo che è nato per fare, per agire, il quale, non potendo agire, arricchisce cosí la sua letteratura: non rinuncia, si badi, al suo desiderio, ma non potendolo attuare, lo trasferisce, come un’intensificazione piú energica, nell’impegno della poesia e della letteratura.
Nel secondo capitolo, alla somma difficoltà per il letterato di ottenere la gloria (a parte tutte le ragioni dovute alla «malignità degli uomini»: «le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la [sua] riputazione»)[4] anzitutto perché questa presuppone l’attuazione di «opere eccellenti e perfette, o prossime in qualche modo alla perfezione»[5], il Leopardi fa corrispondere l’altissima esigenza artistica della vera poesia in quanto essa richiede la «forza dello stile». Prima si era messa in rilievo l’esigenza della «profondità dei pensieri», ora si rileva la «forza dello stile» e della lingua: donde la rarità dei grandi scrittori e la rarità dei buoni giudici di poesia, capaci di comprendere le bellezze «delicate e riposte», di distinguerle da quelle «grosse e patenti», di separare la «verecondia» dall’«ardire»[6].
Qui il Leopardi profila dunque un aspetto essenziale della sua poetica quale si è venuta maturando entro il lavoro delle Operette: il superamento della poetica dell’«ardire» eloquente, per una poetica piú intima e profonda, volta a una bellezza piú casta e vereconda, che pur non distingue mai la forza dello stile e della lingua (di cui qui si innalza al massimo il pregio decisivo: «E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, tu la riduci in istato, che ella ti par cosa di niuna stima»)[7] dalla forza interna dei profondi pensieri.
Ma questa stessa difficile perfezione (misurata sul confronto fra la poesia di Virgilio e quella di Lucano) e la stessa difficile capacità di valutarla da parte dei lettori, comportano l’estremo rischio cui sono esposte le opere perfette, degne di gloria.
Anche perché, come è spiegato nel capitolo terzo, gli stessi effetti della poesia sui lettori piú validi sono soggetti a un’estrema relatività dei giudizi, legati alla relatività e mutevolezza della disposizione di quei lettori che, in quanto uomini condizionati dalle loro qualità psicologiche e fisiche, dagli sbalzi degli umori e degli stati d’animo, ora aderiscono, magari con eccessi, agli stimoli delle opere lette, ora invece non riescono a provarne nessun effetto.
Donde, di nuovo, al filone negativo relativistico corrisponde il filone delle meditazioni sugli effetti della poesia nei lettori e sulla difficoltà della critica e della sua obbiettività. Ai tempi di freddezza e di languidezza (in cui il lettore piú attrezzato non sa aderire agli stimoli dell’opera letta e pure seguita a leggere e giudicare, incorrendo cosí, specie per le opere lette la prima volta, in grossi errori) succedono tempi di fervore, in cui i lettori «seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni leggero tocco, e coll’occasione di ciò che leggono, creano in se mille moti e mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di se».
Cosí i piú alti valori poetici sono esposti alla variabilità della disposizione dei lettori «in diverse età della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno»[8].
Qui il relativismo leopardiano si esaspera e il capitolo quarto delinea, a contrasto, la situazione dei lettori giovani, che appare inizialmente la piú adatta all’adesione alle cose di grande valore (e ne nasce, all’interno di una meditazione estetica, un nuovo pessimistico pensiero sul «decadimento dell’animo, prescritto dalla stessa natura alla nostra vita» nella maturità e nella vecchiaia, intrecciato con un fervido moto di appassionato vagheggiamento della gioventú che crede ai valori prima delle tristi esperienze negative della vita), e la situazione degli uomini maturi e vecchi, privi del fervore giovanile (il quale però induce a cercare nella lettura un «diletto piú che umano», donde la delusione anche su opere altissime e a preferire «l’eccessivo al moderato, il superbo o il vezzoso [...] al semplice e al naturale»), ma piú capaci di comprendere «la matura e compiuta bontà delle opere letterarie»[9]. In conclusione ancora una nota negativa circa l’obiettività e la durevolezza dei giudizi e circa la gloria letteraria, variabili a seconda che il lettore viva in una città piccola o grande.
La considerazione della difficoltà del giudizio e della gloria si approfondisce (nel capitolo quinto) attraverso l’esame dei libri contemporanei, privi dell’autorità degli antichi ed esposti alla confusione delle cose grandi e di quelle mediocri, specie per la frettolosità delle troppo numerose letture dell’accresciuta produzione moderna.
Con il capitolo settimo l’operetta risale a un altro tema possente e molto significativo per la stessa poetica delle Operette morali. Il Leopardi si volge dalle opere letterarie a quelle filosofiche: ma subito chiarisce il fatto che filosofia e letteratura non sono veramente separabili, che le lettere «amene» «pendono totalmente» dalla filosofia, che i grandi filosofi «sarebbero potuti essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi»[10]. Poiché, oltre tutto, «è comune al poeta e al filosofo l’internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell’une e degli altri: nelle quali cose, quelli che non sono atti a sentire in sé la corrispondenza de’ pensieri poetici al vero, non sentono anche, e non conoscono, quella dei filosofici»[11].
E di nuovo (secondo il procedimento, analitico ed esauriente e l’intreccio fra le meditazioni di poetica e critica, il filone progrediente e implacabile della denudazione del mito della gloria) nel capitolo ottavo il Leopardi dimostrerà come gli stessi grandi filosofi siano esposti al misconoscimento della loro grandezza proprio perché la loro sproporzione con il proprio tempo, la loro rivoluzionarietà rispetto alle opinioni correnti e già assimilate degli altri uomini, spesso li abbassa di fronte a quegli ingegni piú mediocri che riprendono, volgarizzano, diffondono le idee originali di quei grandi e cosí finiscono per acquistare un nome e una gloria magari maggiore di quella degli «ingegni straordinari».
Giunta a questo culmine paradossale e pessimistico, l’operetta si volge a un’ultima parte: ammesso pure che il giovane letterato, a cui si riferisce il Parini, ottenga gloria letteraria, quale frutto ne ricaverà?
Se egli vive in città piccola e gretta non potrà essere apprezzato; se egli vive in città grande sarà confuso nella folla dei letterati. In ogni caso, la sua gloria non gli darà in vita onore e felicità (Omero fu «povero e infelice») ed egli non potrà che rifugiarsi nell’immaginativa, nella speranza del riconoscimento piú alto della posterità:
Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è cosí felice oggi, che disprezzando la vana felicità presente, non si conforti col pensiero di quella parimente vana, che egli si promette nell’avvenire.[12]
Vana anche questa perché lo stesso mutare dei gusti e delle opinioni, causato dalle opere grandi, priva quest’ultime della gloria per passarla ad altre successive. Dunque che fare? La gloria letteraria è difficile e vana, la vita del letterato è infelice.
Eppure non si può smentire la propria vocazione, sfuggire al proprio destino, e la grandezza si esercita nel seguire questo «con animo forte e grande»:
Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtú, e di quelli che ti somigliano.[13]
Con questo movimento che sta come a mezzo fra la morale eroica e la morale stoica, fra la saggezza virile e delusa e la piú profonda volontà di opposizione al fato che sarà piú tarda e sicura conquista, si suggella questa profonda operetta per tanti aspetti autobiografica, coerente alla profonda linea della diagnosi negativa della situazione umana perseguita in tutte le Operette morali.
Da una simile operetta il passaggio piú logico sarebbe quello che conduce all’Ottonieri. Ma in mezzo alle due operette piú simili per impostazione e per taglio balza come da un impeto piú interno e piú poetico il singolarissimo Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, scritto fra il 16 e il 23 agosto.
Del resto, a ben vedere, questa operetta nasce dal confronto fra pensiero e sensibilità esercitato dal Leopardi sui temi della caducità, della vanità dell’esistenza, del rapporto fra vita ed esistenza, della qualità tutta sensibile e senziente dell’uomo, della sua organica disposizione al piacere e al dolore e della sua impossibilità di felicità.
Da questo intenso attrito (presente a suo modo anche nel Parini) scocca la scintilla poetica di questa originalissima operetta, che solo molto parzialmente potrebbe considerarsi come uno scherzo macabro, un divertimento ambiguo e diseguale su di un corollario del sensismo leopardiano mosso da una curiosità acuta per il momento del morire riportato alla settecentesca querelle sui piaceri e sui dolori. E certo quella curiosità (o, meglio, interesse profondo) si era manifestata apertamente in un pensiero dello Zibaldone del 17 ottobre 1820[14] in rapporto alle considerazioni fatte in proposito dal Buffon nella sua Histoire naturelle de l’homme (che fu presente poi nella genesi del dialogo insieme all’Éloge de M. Ruysch del Fontenelle e all’Éloge de Descartes del Thomas).
Ma la radice del dialogo è piú profonda e lo “scherzo macabro” è in realtà definizione troppo parziale rispetto alla profondità e complessità dei motivi e dei toni di questa operetta, che dall’indagine sensistica sul momento del morire e sulla sua natura di piacere piuttosto che di dolore, investe addirittura i problemi piú generali della vita e della morte, della loro assoluta diversità e alterità e della loro unica comunanza nella mancanza di felicità.
Ne deriva un’opera di estrema originalità in tutta la sua interezza, nel rapporto fra il Coro e il dialogo, nel contrasto delle voci, nella graduazione di toni lucidi e suggestivi: prova di una inventività artistica eccezionale, sollecitata dal folto, complesso fondo di problemi che il Leopardi vi ha espresso.
Il dialogo si apre con il grande Coro di morti, che è certamente una delle poesie leopardiane piú singolari e inquietanti perché corrisponde alla volontà e capacità di far parlare il nulla: i morti infatti sono qui la voce del nulla; non sono le “anime” di certe concezioni religiose, ma solamente il nulla, un “esistere” privo di ogni “vita”, un’«ignuda natura» che non può essere interpretata, come qualcuno ha fatto, nel senso di un’anima spogliata del corpo, ma che va intesa, coerentemente a tutto l’atteggiamento leopardiano, come un’esistenza totalmente priva di vita. In questo coro il Leopardi ha voluto porre un’antitesi irriducibile: tra la vita e la morte non c’è comunicabilità, comparabilità; c’è assoluta alterità e diversità.
Sola nel mondo eterna, a cui si volve
ogni creata cosa,
in te, morte, si posa
nostra ignuda natura;
lieta no, ma sicura
dall’antico dolor. Profonda notte
nella confusa mente
il pensier grave oscura;
alla speme, al desio, l’arido spirto
lena mancar si sente:
cosí d’affanno e di temenza è sciolto,
e l’età vote e lente
senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
e di sudato sogno,
a lattante fanciullo erra nell’alma
confusa ricordanza:
tal memoria n’avanza
del viver nostro: ma da tema è lunge
il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda[15]
oggi è la vita al pensier nostro, e tale
qual de’ vivi al pensiero
l’ignota morte appar. Come da morte
vivendo rifuggia, cosí rifugge
dalla fiamma vitale
nostra ignuda natura;
lieta no ma sicura,
però ch’esser beato
nega ai mortali e nega a’ morti il fato.[16]
Da questo punto di vista può essere interessante ricordare che, su questa via, lo scrittore ha potuto trovare anche qualche sollecitazione o conforto in certi testi dell’ultimo Settecento, come la quarta e sesta «notte» delle Notti romane di Alessandro Verri, dove si trovano delle affermazioni (da parte dei morti, delle ombre che ricompaiono) che accentuano fortemente la totale imparagonabilità tra la vita e la morte (anche se al di là di questi raccordi, la posizione del Verri porta a conclusioni di carattere spiritualistico opposte a quelle leopardiane).
L’antitesi su cui è impiantato questo Coro è stata chiarita soprattutto da Adriano Tilgher, che scrisse: «La prodigiosa bellezza di questo Coro, che basterebbe da solo a far di Leopardi uno dei piú grandi poeti del mondo, viene dall’essere Leopardi riuscito a trasformare in emozione poetica l’idea di uno stato dell’essere che definisce se stesso come aldilà di ogni emozione, come calma assoluta e impassibilità pura. Per riuscirci, Leopardi ha ricorso [...] a un procedimento per antitesi: i morti ricordano senza veramente ricordarsene il tempo in cui furono vivi. Il mistero che è ora per loro la vita mortale, la vita che è l’essere per la morte (come dice Heidegger) e la ripugnanza che essa loro ispira formano il tessuto emozionale del canto. Ma questo senso di mistero, questo moto di ripugnanza sono appena appena accennati, ché a insistervi su, la vita (la vita del desiderio e del timore, la volontà di vivere) s’insinuerebbe nel regno della Morte e l’antitesi crollerebbe. Sulla immobile ghiacciaia della Morte corre appena un fremito di vento, tanto quanto basta perché i morti possano parlarci e farsi capire da noi. Poi il vento cade e l’immobilità torna a regnare. Per noi viventi, la vita pura dei morti è il nulla. Fare che questo nulla canti e si manifesti e definisca a noi senza distruggerlo come nulla è il miracolo che Leopardi ha compiuto in questi versi, che sono una delle vette del patrimonio poetico dell’umanità»[17].
Il Coro, che è il punto piú alto dell’operetta, si costruisce in un’estrema simmetria e rifiuta ogni immagine di carattere pittoresco. L’unica immagine è quella centrale, che indica uno stato di dormiveglia, di indistinzione, tipico del lattante precosciente e dei morti:
[...] e qual di paurosa larva,
e di sudato sogno,
a lattante fanciullo erra nell’alma
confusa ricordanza:
tal memoria n’avanza
del viver nostro: [...].
La poesia insiste continuamente su poche parole, quasi che il Leopardi abbia voluto dare a essa un’assolutezza piú forte, rifiutandosi a quella alacrità di lessico e di linguaggio a cui egli era naturalmente cosí disposto. Le parole «morte», «notte», “rifuggire”, sono le rare parole che predominano in questo coro, e la sua tonalità è costante, mossa appena, al suo centro, da una lieve, piú vibrante inflessione (in cui la ripetizione dei suoni «fummo», «fu» è tutt’altro che sciatta cacofonia, volendo accentuare il suono cupo e tetro della voce dei morti con una musica piú profonda di ogni facile melodia e armonia eufonica) quando i morti si domandano:
[...] Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
che di vita ebbe nome?
Infine, nel ribadire l’assoluta antitesi fra vita e morte, il Coro assicura il principio fondamentale dell’assoluta impossibilità di felicità in vita e in morte, tanto meglio espressa nel testo definitivo («Però ch’esser beato / nega ai mortali e nega a’ morti il fato») rispetto alla primitiva stesura che diceva: «Però ch’esser beato / nega agli estinti ed ai mortali il fato»[18]. Cosí, coerentemente, il Coro si conclude con la totale estensione della mancanza di felicità e di beatitudine ai mortali e ai morti, accomunati persino dalla stessa radice (morti e destinati alla morte).
Se il Coro costituisce la punta piú alta dell’operetta, non è tuttavia vero, come ha sostenuto anche il Getto nel saggio ricordato, che la parte dialogata rappresenti una caduta, pur che si pensi almeno, e subito, al grande significato poetico dell’incontro fra la voce di Ruysch e quella dei morti. Le battute prosastiche di Ruysch pertengono alla volontà leopardiana di far risaltare il contrasto tra l’uomo del “comunque vivere” (che si preoccupa di tornare a letto e che i morti siano veramente morti) e la voce dei morti; è un fortissimo espediente poetico, che si avvale anche del passaggio graduato mirabilmente tra l’inizio del dialogo, quando Ruysch comincia a parlare anzitutto con se stesso, con una voce un po’ pettegola, quotidiana, prosaica, e il suo svolgimento. Tutta questa prima parte è intessuta con parole che vogliono avere un loro macabro umorismo e che non sono soltanto volontariamente volgari, ma indicano anche toni irreali e surreali (i morti che escono «pel buco della chiave») e hanno un sottinteso piú profondo: «piú morto di loro», «paura», «coraggio»:
RUYSCH (fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell’uscio): Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono piú morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant’è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l’uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de’ morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro.
(Entrando): Figliuoli, a che giuoco giochiamo? [...] Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene. In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente; se no, avvertite ch’io piglio la stanga dell’uscio, e vi ammazzo tutti.[19]
A queste battute risponde la voce del Morto, che parla per tutto il coro: è una voce che sembra venire da lontananze profonde, come filtrata attraverso il velo, la cesura della morte, e che al suono fastidioso e pettegolo di Ruysch oppone un tono fermo, quasi neutro, come in un’altissima calma, e insieme suggestivo e folto, in quell’austera e sublime descrizione dei sepolcri innumerevoli che trasforma tutta la terra in un immenso cimitero. È una delle punte piú alte del dialogo, ma che trova al solito la sua ragione d’essere dall’insieme dell’operetta:
MORTO: Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
RUYSCH: Dunque, che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
MORTO: Poco fa sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giú nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita.[20]
Il resto delle prime battute insiste su questa diversità di voci. Ruysch sottolinea la curiosità, il suo non profondo interesse, proprio di uno specialista di “pompe funebri”, o di uno scienziato pratico, abituato a trattare con i corpi morti. La voce del Morto fa invece ulteriori osservazioni intorno all’interpretazione dello stato dei morti: quando Ruysch si dorrà che essi non possono parlare tra di loro (secondo l’antica leggenda dell’anno matematico, utilizzata dal Leopardi, potevano parlare se sollecitati dai vivi), il Morto risponderà: «Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire»[21]: tra i morti non c’è vita, dialogo, comunicazione, non ci sono quei colloqui e incontri magari sublimi che la fantasia o la fede hanno immaginato.
A questo punto l’operetta viene a spostarsi su alcuni problemi precisi che potrebbero sembrare solo dei corollari delle posizioni sensistiche leopardiane, ma che in realtà portano un’ulteriore limitazione alla possibilità del piacere e della felicità: il piacere non si trova nella vita che come una forma di languidezza che conduce alla morte. A Ruysch, che vuol sapere anzitutto che cosa hanno provato al momento della morte, Leopardi, attraverso la voce del Morto, risponde (indagando su questo estremo confine tra morte e vita, con una esaustività, una sottigliezza, una profondità veramente terribili, armato di una concezione dell’uomo totalmente sensistica e materialistica, e insieme con una costanza, una sicurezza di tono morbido, misterioso e lucido, in cui la sua tipica analiticità è trasferita entro la voce dei morti, con risultati veramente sorprendenti), che in quel punto, in cui la vita finisce e subentra la morte gradualmente e lentamente (risposta di tipo lucreziano al terrore fisico della morte), non c’è piú posto per sentimenti forti e vivi, e quindi non può esserci piú nessuna forma di dolore, perché il dolore è cosa viva:
MORTO: Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l’uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non piú che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo?[22]
Ruysch pone allora la suprema domanda: «Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito dal corpo? Dite: come conosceste d’essere morti?». I morti non rispondono, non solo perché è passato il quarto d’ora concesso (come interpreta Ruysch: «Non rispondono. Figliuoli, non m’intendete? Sarà passato il quarto d’ora»)[23], ma soprattutto perché rispondere a questa domanda equivarrebbe ad accettare in qualche modo l’idea di una “vita” ultraterrena che Leopardi esclude.
Infine le ultime parole di Ruysch («Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un’altra volta: torniamocene a letto»)[24] concludono il grande dialogo con uno “scherzo” solo apparente e pieno invece di gravi significati: la preoccupazione dell’uomo mediocre, e interessato al “comunque vivere” di fronte all’inquietante presenza dei morti, consiste nel vederli «rimorti ben bene» per potersene tornare a letto, ai suoi sonni tranquilli e senza problemi.
Dopo questa grande operetta Leopardi scrisse, dal 29 agosto al 26 settembre (quindi con un grosso impegno di lavoro, come era avvenuto per il Parini) i Detti memorabili di Filippo Ottonieri. L’impostazione di questa operetta non ha certamente la totale intensità, la pressione interna, il risultato poetico che ha il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, anche se costituisce una continuazione molto importante e interessante del filone piú autobiografico delle Operette, svolto dal Leopardi già nel Dialogo di Timandro e di Eleandro , e continuato attraverso la voce del Parini, in una specie di esame di coscienza del letterato. L’Ottonieri è evidentemente disposto sull’esempio di alcune opere antiche e recenti, come i Memorabili di Socrate di Senofonte, la Vita di Demonatte di Luciano e, piú da vicino, la Notizia intorno a Didimo Chierico del Foscolo, da cui il Leopardi trasse un tipo di battute allusive e paradossali.
D’altra parte quest’operetta è tutt’altro che inerte, articolata com’è in capitoletti, artisticamente ben calcolati perfino nel loro attenuarsi di brevità e lunghezza e intervallati, al loro interno, da parti piú distese e discorsive e da serie di battute paradossali e rapide, fino all’ultimo capitoletto piú arguto e dolentemente scherzoso.
Tuttavia nel suo insieme, malgrado gli elementi interessanti che possiamo trovarci, malgrado parti piú belle, piú intense, l’operetta, se paragonata alle piú grandi, ha qualcosa di meno premente e, a volte, fa troppa concessione a forme argute, in cui rifluiscono (senza un sicuro e pieno risultato artistico) troppe battute elaborate nello Zibaldone del ’17-18, prive di vera pregnanza e di significato. Si veda in proposito questo giuoco un po’ debole e circoscritto, nell’ultimo capitoletto:
Da giovane, avendo composto alcuni versi, e adoperatovi certe voci antiche; dicendogli una signora attempata, alla quale, richiesto da essa, li recitava, non li sapere intendere, perché quelle voci al tempo suo non correvano; rispose: anzi mi credeva che corressero; perché sono molto antiche.[25]
Oppure quando si dice, giocando tra il luogo e la terracotta:
Ad alcuni antiquari che disputavano insieme dintorno a una figurina antica di Giove, formata di terra cotta; richiesto del suo parere; non vedete voi, disse, che questo è un Giove in Creta?[26]
Insomma, si possono avvertire in questa operetta limiti di un gusto libresco, di un umorismo troppo letterario, che da certi critici sono stati assunti esageratamente come tipici di tutte le Operette morali, e che sono invece ai loro margini, anche se in questo caso si fanno sentire eccessivamente.
L’Ottonieri, tra l’altro, non ha un problema centrale, piú pressivo, e quindi non ha la forza organica che hanno altre operette, la forza che avrà subito dopo, per esempio, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez.
Il Leopardi qui ha scelto una forma di ideale narrazione autobiografica attraverso Filippo Ottonieri: una figura di saggezza delusa e stoico-malinconica, costruita piú sul sentimento della vanità della vita che non sulla forza premente di grossi problemi in azione.
Sicché, entro il tessuto malinconico di una saggezza delusa che introduce a un Leopardi meno impegnativo, elusivo e malinconicamente ironico piú che fortemente organico, possono facilmente estrarsi zone alte e certo suscettibili di un rilievo antologico. Cosí, in particolare, la pagina del terzo capitolo sul supremo dolore di chi vede scomparire la persona amata per una malattia non violenta ma logorante:
In proposito di certa disavventura occorsagli, disse: il perdere una persona amata, per via di qualche accidente repentino, o per malattia breve e rapida, non è tanto acerbo, quanto è vedersela distruggere a poco a poco (e questo era accaduto a lui) da una infermità lunga, dalla quale ella non sia prima estinta, che mutata di corpo e d’animo, e ridotta già quasi un’altra da quella di prima. Cosa pienissima di miseria: perocché in tal caso la persona amata non ti si dilegua dinanzi lasciandoti, in cambio di se, la immagine che tu ne serbi nell’animo, non meno amabile che fosse per lo passato; ma ti resta in sugli occhi tutta diversa da quella che tu per l’addietro amavi: in modo che tutti gl’inganni dell’amore ti sono strappati violentemente dall’animo; e quando ella poi ti si parte per sempre dalla presenza, quell’immagine prima, che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere scancellata dalla nuova.[27]
È una pagina di estrema sensibilità sulla cui scorta si capisce meglio il Leopardi dell’«eterno sospiro» di certi canti pisano-recanatesi, che nasce dalla possibilità di recuperare l’immagine intatta, colta nella radiosa giovinezza di Silvia e di Nerina. Qui egli invece avverte come ci sia una sciagura piú grande della morte: la perdita della persona amata attraverso un logoramento che le fa cambiare volto e animo, sicché l’immagine ultima che ne abbiamo è sbiadita, diversa da quella che potevamo avere se la persona fosse stata strappata dalla vita con un «accidente repentino» o con una malattia violenta e breve.
«Cosí vieni a perdere la persona amata interamente»[28]. C’è una forza estrema e struggente in queste parole; prima il «per sempre», ora l’«interamente» che è una delle componenti essenziali della poesia elegiaca del futuro Leopardi, dal quale la morte sarà sentita soprattutto come quella che ci fa perdere la persona amata, le persone concrete con tutto il loro fisico, il loro volto, i loro tratti caratteristici. Ma qui la miseria suprema è quella di doverle perdere interamente perché non potremo serbare il ricordo di quello che erano, ma ne serberemo solo un ricordo logorato: «come quella che non ti può sopravvivere né anche nella immaginativa: la quale, in luogo di alcuna consolazione, non ti porge altro che materia di tristezza»[29].
D’altra parte, è proprio a partire da questo senso profondo che le persone siano irripetibili e con la morte completamente estinte, incapaci di qualsiasi forma di vita, separate da una barriera assoluta dai vivi, che Leopardi, nella poesia successiva, sarà tutto teso al recupero poetico di quelle persone, Nerina, Silvia, da cui nascerà la forza piú intima dei nuovi canti pisano-recanatesi[30].
Ecco perché comprendere il rifiuto leopardiano di ogni forma di immortalità è fondamentale per intendere la nuova poesia del Leopardi. Sarebbe inimmaginabile questa poesia se Leopardi avesse avuto un’altra via di uscita. Proprio l’impossibilità di credere, di sentire un’altra esistenza, ha fatto sí che la sua poesia avesse questa specie di comprensione, del limite assoluto da cui sale la lirica profonda di A Silvia o delle Ricordanze («Ad altri / il passar per la terra oggi è sortito, / e l’abitar questi odorati colli»)[31].
Dopo l’Ottonieri, finito nel settembre, segue un’ultima fase della attività leopardiana nel 1824, che comprende tre operette: il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, che va dal 19 al 25 ottobre, poi, dal 29 ottobre al 5 novembre, l’Elogio degli uccelli, e infine, dal 10 al 16 novembre, il Cantico del gallo silvestre.
È una zona assai compatta, anche se il Leopardi sceglie tagli e prospettive di soluzioni artistiche piuttosto diverse: il Dialogo di Colombo e Gutierrez si caratterizza per la capacità di ricreare una situazione precisa e insieme fantastica, l’Elogio degli uccelli è tagliato in forma di elogio (con la ricerca di certe forme della prosa illustre del tempo) e il Cantico è profilato in una specie di inno in prosa poetica tra biblico e ossianesco.
Il Dialogo di Colombo e Gutierrez è uno dei dialoghi piú belli e originali, anzitutto per la sua capacità di creare un’intera situazione poetica. Ovviamente non bisogna avvicinarsi a questo dialogo con esigenze romantiche e realistiche alla De Sanctis, ma è anche vero però che la situazione anche paesaggistica di questa operetta è molto di piú di una semplice “cornice immaginosa”, come è stato detto dal Getto, troppo teso, come sempre, a distinzioni e rilievi estetici.
Il dialogo si apre nel momento piú drammatico del viaggio di Colombo, quando i marinai avevano già cominciato a manifestare irrequietezza, nel dubbio e timore di essere stati condotti a una pazza avventura senza approdo. Da una parte ci sono questi timori e questo ardente desiderio del toccar terra a cui dà voce l’uomo comune, pratico, del “comunque vivere”, Gutierrez. Dall’altra c’è Colombo, che esprime un profondo ideale leopardiano di uomo d’azione e insieme di fantasia, assai al di là della figurazione di Colombo nell’Ad Angelo Mai. Colombo va cioè visto sí come una ripresa della precedente poetica dell’“ardire” affrontata dal Leopardi soprattutto all’altezza di A un vincitore nel pallone, ma va da essa distinto per le piú alte qualità di intimità, misura, controllo, per l’interno fervore, che denota un approfondimento nella direzione già riscontrabile nel Parini: qui Leopardi parlava di certe bellezze piú caste, piú vereconde, piú riposte (di fronte alle bellezze piú «patenti» e piú ardite proprie di giovani) ma ben radicate non nel distacco o nell’astensione, ma nella fusione di disposizione all’azione e alla fantasia; alla quale viene dato nel Dialogo un che di piú meditato e maturo.
Colombo è l’uomo che all’azione sa unire la poesia, la disposizione al sogno, alla meditazione, alla contemplazione, al senso dell’infinito, che non ha ovviamente alcun carattere spiritualistico (come risulterà poi dalla satira fatta nei Nuovi credenti dei religiosi ipocriti del suo tempo) né, come abbiamo detto, di pura contemplazione. Colombo è un poeta radicato nell’uomo d’azione.
Il paesaggio di questa operetta è poi tutt’altro che una cornice. Già la prima battuta, che evoca una bellissima notte stellata, contemplata da Colombo dalla tolda della nave, di fronte a un mare infinito, è l’espressione fantastica della situazione dell’uomo d’azione che è insieme poeta nel momento in cui non sa se potrà «verificare», come dice Gutierrez, le sue ipotesi scientifiche. Colombo è l’uomo che non chiede il risultato pratico, ma che si dispone alla vita per ideali alti, per alti sogni, per il quale (come dice una grande massima evangelica: «il resto vi sarà dato per sovrappiú») il risultato pratico, il riuscire o il non riuscire in un’impresa è un sovrappiú, l’importante è l’animo che si mette nelle cose:
COLOMBO: Bella notte, amico.
GUTIERREZ: Bella in verità: e credo che a vederla da terra, sarebbe piú bella.[32]
A Gutierrez importano i risultati concreti, il terreno stabile, lo sfuggire ai pericoli della navigazione; è l’uomo della terra ferma. Colombo capisce subito quello che si cela sotto questa apparente ambiguità e dice: «Benissimo: anche tu sei stanco del navigare». Gutierrez con un discorso piú contorto lo confermerà sostanzialmente: ciò che lo assilla è sapere se anche Colombo ha ancora veramente fiducia di approdare o se ha dei dubbi.
Qui Colombo aprirà la prima parte del dialogo con un discorso profondamente limpido e folto, come è la prosa piú alta delle Operette morali, con un discorso sensibilissimo, fantastico e d’altra parte ricco di elementi di pensiero sviluppati con la compiutezza tipica delle Operette morali. Il protagonista esporrà chiaramente tutti i suoi dubbi: ciò che egli ha pensato e confortato con tutta la sua scienza e con quella degli altri scienziati del suo tempo, può anche non avere un risultato pratico, dato che vi sono troppi indizi che lo hanno deluso.
Questa introduzione mette anche in luce il modo con cui Leopardi non fa vivere il paesaggio (si noti la bellissima immagine del mare pieno di alghe che diventa quasi un prato) come una “cornice immaginosa”, ma lo fa vivere all’interno dello stesso dialogo, fuso con i ragionamenti e con gli stessi dubbi, magari attraverso l’evocazione di favole antiche come quella di Annone:
COLOMBO: Ecco che noi veggiamo cogli occhi propri che l’ago in questi mari declina dalla stella per non piccolo spazio verso ponente: cosa novissima, e insino adesso inaudita a tutti i navigatori; della quale, per molto fantasticarne, io non so pensare una ragione che mi contenti. Non dico per tutto questo, che si abbia a prestare orecchio alle favole degli antichi circa alle maraviglie del mondo sconosciuto, e di questo Oceano; come per esempio, alla favola dei paesi narrati da Annone, che la notte erano pieni di fiamme, e dei torrenti di fuoco che di là sboccavano nel mare: anzi veggiamo quanto sieno stati vani fin qui tutti i timori di miracoli e di novità spaventevoli, avuti dalla nostra gente in questo viaggio; come quando, al vedere quella quantità di alghe, che pareva facessero della marina quasi un prato, e c’impedivano alquanto l’andare innanzi, pensarono essere in su gli ultimi confini del mar navigabile.[33]
Quando poi Gutierrez trae la sua conclusione di uomo pratico, e con un certo sdegno, dice: «Di modo che tu, in sostanza, hai posto la tua vita, e quella de’ tuoi compagni, in sul fondamento di una semplice opinione speculativa»[34] (rimprovera cioè al capitano di aver messo a rischio la propria vita e l’altrui in base a una opinione speculativa su cui Colombo stesso non ha piú alcuna certezza), Colombo sviluppa, nella parte centrale del dialogo, un discorso in cui viene affrontando direttamente quel motivo del rischio, dell’azzardo, per cui la vita non ha frutto nel puro esistere, ma valore ha il vero vivere, cioè i sentimenti intensi e forti. Quando la vita è cosí “vita” come nel momento in cui l’uomo l’arrischia? Quando l’uomo trepida per la sua sorte, non è sicuro del risultato, è il momento in cui la vita diventa ricca anche di tensione, di profonde aspettative, secondo la tesi leopardiana che il piacere non è che aspettativa, magari vana, di qualcosa che non giungerà mai.
Sicché la clausola, stilisticamente molto bella, affermerà: «se pure una volta ci verrà scoperta da lontano la cima di un monte o di una foresta, o cosa tale, non capiremo in noi stessi dalla contentezza; e presa terra, solamente a pensare di ritrovarci in sullo stabile, e di potere andare qua e là camminando a nostro talento, ci parrà per piú giorni essere beati»[35]. Ci sarà dunque un breve lembo di felicità, ma apparente e falsa perché la felicità reale è impossibile, non è concessa dal fato né ai mortali, né ai morti (si ricordi il Coro di morti).
E l’unico momento di illusoria beatitudine lo si avrà nel passaggio dal pericolo al primo entusiasmo per la conquista della terra. Il fondo del dialogo è sempre negativo, sicché l’analisi del Gentile[36], che in questa operetta vedeva un momento di costruzione positiva, non è certamente accettabile: è un parere non un essere positivo.
Quando poi Gutierrez risponde cercando una verità concreta: «Tutto cotesto è verissimo: tanto che se quella tua congettura speculativa riuscirà cosí vera come è la giustificazione dell’averla seguita, non potremo mancar di godere questa beatitudine un giorno o l’altro»[37], Colombo, con la sua ultima battuta (una delle pagine piú poetiche delle Operette) prospetta un’immagine malinconico-luminosa di falsa e limitata beatitudine attraverso i segni che a lui in quel momento paiono indicare la possibilità della terra:
Io per me, se bene non mi ardisco piú di promettermelo sicuramente, contuttociò spererei che fossimo per goderla presto. Da certi giorni in qua, lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità di quella materia che gli vien dietro, mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al sole, mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi. L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco piú dolce e piú tepida di prima. Il vento non corre piú, come per l’addietro, cosí pieno, né cosí diritto, né costante; ma piuttosto incerto, e vario, e come fosse interrotto da qualche intoppo. Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata di poco; e quel ramicello di albero con quelle coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli uccelli, benché mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano, e cosí grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno; che penso vi si possa fare qualche fondamento; massime che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla forma, non mi paiono dei marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona.
GUTIERREZ: Voglia Dio questa volta, ch’ella si verifichi.[38]
Le due voci rimangono fino all’ultimo nettamente divise. Gutierrez tende sempre a questo «si verifichi»; propria di Colombo è invece soprattutto l’aspettativa di speranza che anima questo bellissimo brano, e che è tutta intrisa di elementi di paesaggio (l’aria che diventa tepida e dolce, le coccole fresche e rosse, il bellissimo motivo del passare degli stormi degli uccelli e del loro moltiplicarsi). La prosa ha l’impalpabilità di un tocco lievissimo, che riesce a tradurre sensibilmente persino la vibrazione del ritmo e del volo degli uccelli e sempre profondamente trae la sua forza e la sua alacrità dall’intima vita dei temi e problemi messi in azione.
Non altrettanto, ad avviso del Fubini, e anche mio, si può dire dell’Elogio degli uccelli, che fu scritto dal 29 ottobre al 5 novembre del 1824. Esso si presenta in forma apertamente “artistica”, tanto da poter apparire uno dei momenti piú tipicamente “poetici” delle Operette morali proprio perché in varie direzioni si è ecceduto nell’idea che vi sia piú “poesia” nelle operette in cui sono meno presenti gli elementi speculativi e filosofici; mentre come abbiamo cercato di mostrare, in realtà, la maggiore poesia delle Operette morali si ha quando c’è una fusione profonda, e non l’assenza, di problemi attivi.
Nell’Elogio degli uccelli manca una pressione piú intensa, tanto che di solito coloro che hanno cercato di giustificare la poeticità di questa operetta ne hanno parlato come di un «finissimo arazzo», che è formula (ammesso che sia accettabile) evidentemente assai lontana dalla vera direzione in cui si muovono le Operette morali.
È l’operetta in cui può apparire piú presente di quanto non sia nelle altre piú profonde, anche una maggiore vicinanza del prosatore Leopardi a certe forme della prosa “illustre” classicistica del primo Ottocento.
Tutta la grande prosa evidentemente è molto elaborata, calcolata, ma qui vi è un che di piú freddamente studiato, di piú stilizzato, quasi anche di piú agghindato e manierato. Basti pensare a certe descrizioni degli uccelli e del loro costume:
Imperocché si vede palesemente che al dí sereno e placido cantano piú che all’oscuro e inquieto: e nella tempesta si tacciono, come anche fanno in ciascuno altro timore che provano; e passata quella, tornano fuori cantando e giocolando gli uni cogli altri.[39]
Si noti questo «giocolando», una di quelle forme che il Leopardi può avere anche altrove adoperato come “aulicismo” poetico, ma che qui hanno un che di aggraziato, qualcosa che pure nel seguito («Anche si rallegrano sommamente delle verzure liete, delle vallette fertili, delle acque pure e lucenti, del paese bello»)[40] fa pensare a certi aspetti della prosa illustre del primo Ottocento; a essa ben apparteneva la stessa forma dell’“elogio” (un genere accademico e letterario tipico di questa prosa d’arte), mentre fra i precedenti letterari a cui Leopardi ha guardato ci si può riferire a esempi alla Gasparo Gozzi, e a certa prosa cinquecentesca letteraria e stilizzata.
Si pensi anche ad altri brani, come per esempio là dove il Leopardi descrive gli uccelli nella loro mobilità: «sempre si volgono qua e là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si crollano, si dimenano»[41]. Certo c’è una grande abilità, anche nella gradazione di questi verbi, ma si sente che c’è qualcosa appunto di piú abile, di piú letterario che di poeticamente profondo.
D’altra parte, come per primo ha detto il Fubini, l’operetta è anche quasi spezzata da quella lunga digressione sul riso degli uccelli e degli uomini, che giustamente il critico definisce cosa piuttosto falsa e fredda. Anche per ciò appare piú gracile, pur senza mancare di fermenti di poesia e di un tono malinconico comunque diverso da un semplice “distacco sorridente”.
Lo stesso personaggio che si mette a fare l’elogio («Amelio filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co’ suoi libri, seduto all’ombra di una sua casa in villa, e leggendo; scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all’ultimo pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono»)[42] si profila in un’atmosfera di carattere malinconico, l’unica veramente poetica dell’operetta, non avendo l’elogio degli uccelli come simbolo di vitalità, di movimento, di «vispezza» (come dice Leopardi), di somiglianza con i fanciulli, tanta pressione e forza da dar luogo a un vero intenso motivo di poesia.
Anche da ciò si potrebbe poi dedurre un’ulteriore conferma al rifiuto delle conclusioni che da questa operetta traeva il Gentile, per il quale essa tenderebbe a ricostituire dei momenti positivi. L’elogio della vitalità degli uccelli a suo modo contribuisce infatti a una verifica ulteriore della miseria della situazione degli uomini: sono gli uccelli, non gli uomini, i piú perfetti tra gli esseri animali, sono gli uccelli quelli a cui il filosofo Amelio vorrebbe somigliare, sono essi il simbolo della vitalità e di una letizia vitale che Leopardi non riesce a trovare nell’uomo.
Nel Cantico del gallo silvestre, operetta del 1824, scritta dal 10 al 16 novembre, il Leopardi passa invece alla ricerca di un tono tragicamente solenne e sublime, che costituisce cosí l’alto epilogo delle operette del ’24.
Neppure per questo testo possono essere accettate le conclusioni del Gentile sul ritmo delle Operette che, dopo due momenti negativi, culminerebbe in una ricostruzione positiva, in un ravvicinamento alla vita: al contrario l’operetta è l’estrema severa parola del Leopardi del ’24, è la negazione della felicità, della possibilità di felicità che si estende solennemente, perentoriamente dall’uomo all’universo, coinvolti insieme in una universale caducità. Il Gentile era trasportato dalla sua tesi a forzare gli stessi brani isolati che pensava la confortassero: infatti lo stesso motivo del mattino, in cui gli uomini, riposati dal sonno, si riaprirebbero per breve momento alla vita e alla speranza (mattino paragonato alla fanciullezza), nella dialettica interna di questa operetta non è che un ulteriore mezzo per ribadire l’infelicità umana. Quello stesso mattino che ci apre alla speranza è solo un breve illusorio momento della giornata triste dell’uomo, cosí come la gioventú è un illusorio momento nella vita dell’uomo. In realtà, a ben vedere, esso è un inganno che ribadisce la caducità di questi brevi momenti di ripresa, e il dolore che viene all’uomo dalla continuazione cosí diversa dalla sua giornata e della sua vita. Non è dunque un elemento valido di ricostruzione positiva; e le Operette del ’24 sono tutte fortemente inclinate in questa direzione di negatività, coerenti nella diagnosi della vanità e dell’infelicità dell’esistenza, che nel Cantico viene accentuata in forme volutamente profetiche da una voce non umana, solenne e superiore.
Questo mostruoso gallo silvestre che «sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo»[43] è come la proiezione gigantesca di certi mostruosi animali biblici (si ricordi il coccodrillo del Giobbe) e ha la possibilità di una voce profetica solenne, spaventosa, che, assimilata al canto quotidiano e festoso dei galli, viene invece ad annunciare la terribile, inevitabile condanna di dolore e di morte per tutti gli uomini e per tutto l’universo.
L’operetta è impostata con una voluta grandiosità che il Leopardi stesso dichiara, presentando questo Cantico come una traduzione da uno scritto antico in ebraico, e quindi giustificandone il linguaggio, immaginoso come pertinente allo stile che egli chiama «d’oriente», «interrotto» e «gonfio», biblico e quasi baroccheggiante, volendo insieme, per mezzo di questo “falso”, dare al suo Cantico una validità antica e quasi sacra.
D’altra parte in questa operetta non si avvertono soltanto certi toni della Bibbia, ma c’è l’eco anche di testi piú vicini al Leopardi, soprattutto di due: l’Ossian, che gli fu tanto presente nei vari stadi della sua poesia, persino nei canti pisano-recanatesi, e l’Ortis, di cui specialmente il finale dell’operetta rivela presenze non solo come ripresa letteraria ma anche spirituale. Da una parte i Canti di Ossian, con la pressione angosciosa e dolorosa delle domande senza risposta che l’uomo rivolge al sole, alle stelle, coinvolgendo la natura e gli esseri inanimati nel terribile mistero dell’universo e nella sorte di caducità e di dolore dell’uomo; e dall’altra parte l’Ortis, il libro piú esplosivo e drammatico-pessimistico del Foscolo.
L’operetta, dopo le prime giustificazioni, si apre con la voce solenne e spaventosa del gallo che chiama gli uomini al risveglio dal sonno:
Su, mortali, destatevi. Il dí rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è piú desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua.[44]
Il momento del risveglio è sí pieno di speranza, ma la ripresa di coscienza porta poi l’uomo a sentire di piú la miseria della sua vita. Il Cantico continua in questa esposizione solenne di verità tutte sostanzialmente negative, rafforzate spesso da una specie di allibito silenzio della natura animata, come quando il gallo dice:
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o piú di miseria, che oggi non vi si trova?[45]
Attraverso questa rappresentazione negativa Leopardi, come di consueto, risale alla conferma di verità assolute e tutte negative: se anche la vita fosse spenta non ci sarebbe «copia minore di felicità» di quanta ve n’è oggi, cioè l’infelicità è permanente, è di tutti gli uomini, di tutti gli esseri viventi.
Dopo aver a lungo insistito su questo momento del risveglio, in cui gli uomini si aprono a illusorie e brevi speranze, il gallo passa all’analogia del mattino con la gioventú, piena anch’essa di speranze brevi e illusorie e perciò essa stessa un «povero bene»: «Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sí piccolo tempo»[46]. La gioventú è non solo un «povero bene», ma cessa in «piccolo tempo»: l’accento batte sempre su queste forme negative, sul declinare, lo scemare delle forze, sulla coscienza umana di tanta caducità: «quando il vivente a piú segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire»[47] (e Leopardi viene enucleando parole, come l’«appassire», che saranno fondamentali nei grandi canti pisano-recanatesi).
Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sí manifestamente, e di sí gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dí, e finalmente si estinguono; cosí l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Cosí questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.[48]
È il passo finale il cui stile “orientale” (dalle forme assai arcuate e gonfie) e molte immagini e non pochi temi trovano facili consonanze con l’Ortis e l’Ossian. Si pensi a certe apostrofi al sole, agli astri, dell’Ossian, come questa, che sembra quasi preleopardiana: «Ma tu forse, chi sa? sei pur com’io / sol per un tempo, ed avran fine, o Sole, / anche i tuoi dí: tu dormirai già spento / nelle tue nubi senza udir la voce / del mattin che ti chiama»[49].
Oppure si confronti nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis questo passo, pur espresso in uno stile tanto piú ricco di residui settecenteschi, in cui Jacopo si rivolge al sole e dice: «O sole [...] tutto cangia quaggiú! E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato; né piú allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; né piú l’alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo raggio su l’oriente ad annunziar che tu sorgi»[50].
Leopardi dà voce alta e poetica a tutta una pressione non puramente letteraria ma anche di profonde posizioni spirituali che sale dall’ultimo Settecento in poi, con le sue domande ansiose e con quel senso del mistero doloroso dell’universo che il poeta qui porta alle conclusioni piú risolute e negative: la morte del mondo, quando un alto e nudo silenzio e una quiete altissima invaderà tutto ed escluderà ogni segno di vita. Con queste note solenni e terribili si chiude il grande ciclo delle Operette del ’24.
Come particolarissima ripresa e suggello in chiave piú direttamente filosofica del ciclo del ’24 e della sua prospettiva sempre piú materialistica, si colloca nell’autunno del ’25 (fuori di Recanati, a Bologna) il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco che ben pertiene, per la prevalenza della costruzione scheletrica, e come volutamente e realmente privata di ogni animazione piú accesa, a un nuovo periodo realmente successivo, per tono e forma di disposizione mentale e sentimentale, a quello del ’24, l’anno del supremo sforzo filosofico-poetico del grande ciclo delle Operette. Non quello delle Operette è il periodo del massimo distacco leopardiano dall’attrazione vitale e dalla pressione sentimentale-fantastica[51], da cui appunto fra ’25 e ’26 si muoverebbe una lenta ripresa della “sensibilità”, bensí proprio quest’ultimo (prima della vera ripresa dal ’27 in poi) è il periodo in cui campeggia l’adozione esplicita della morale stoica dell’astensione e del rinchiudersi in se stesso, tutto preso dal piacere dei pensieri «metafisici», sulla cui base pare ben attuarsi questa ripresa (a suo modo “metafisicamente” conclusiva) delle Operette morali del ’24. Il Frammento offre cosí un’ulteriore prova di questo stato non alacre, non fantastico del Leopardi in questo periodo: è una operetta esemplata evidentemente sulla prosa scientifica da Galileo, ma estremamente fredda, composta con forte distacco. L’interesse maggiore è costituito dal materialismo risoluto, rigorosissimo, assoluto che Leopardi vi porta avanti (tutt’altro che passivamente accettato, come ha scritto il Fubini, se il Leopardi portò a esso un’adesione precisa, consapevole, articolata e mai piú abbandonata) e che connette il Frammento al filone in sviluppo di pensieri speculativi dello Zibaldone.
I gruppi di pensieri piú importanti fra questi (tra il ’25 e il ’26) vertono sulla riaffermazione sempre piú decisa e lo sviluppo della posizione materialistica, e sullo svolgimento del suo radicale pessimismo verso la natura. Il materialismo (che era venuto prendendo vigore nelle Operette morali del ’24, e che si era consolidato, ripeto, nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco) nei pensieri dello Zibaldone di questo periodo viene ancora piú rafforzandosi, fino a giungere a un pensiero del 9 marzo del 1827, in cui si afferma l’impossibilità di immaginare la separazione di materia e di spirito: perché «la materia può pensare, la materia pensa e sente» [4251][52]. Il Leopardi riassorbe tutto nella materia: «Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. – Quei corpi non sono essi che pensano», risponde un ideale interlocutore; «E che cos’è?», chiede Leopardi; «È un’altra sostanza ch’è in loro», dice l’interlocutore spiritualista. E Leopardi replica: «Chi ve lo dice?». Ancora l’interlocutore: «Nessuno: ma è necessario supporla, perché la materia non può pensare». Ribatte il Leopardi: «Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare», e l’interlocutore: «Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra da sé: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza piú» [4252][53]. Nella sciocca conclusione dell’interlocutore il Leopardi mostra la vanità, l’infondatezza di un’asserzione che non ha nessuna prova, che è “supposta” senza ragione.
Pensieri di questo tipo e altri portano a questa conclusione sulla “materia pensante”, che sancisce, potenzia ed estende fuori delle Operette morali il lucido materialismo esposto nel Frammento.
1 Si ricordi che ancora nella Ginestra una precisa traccia della Caduta («Né si abbassa per duolo, / né s’alza per orgoglio», vv. 97-98) tornerà a suggellare questo piú profondo rapporto fra Leopardi e Parini.
2 Né si dimentichi che a questo denudamento del mito della gloria poté dare stimoli quel Dialogo della virtú sconosciuta che è fra gli scritti piú pessimistici e profondi del grande Alfieri.
3 Tutte le opere, I, p. 118.
4 Tutte le opere, I, p. 119.
5 Tutte le opere, I, p. 119.
6 Tutte le opere, I, pp. 120-121.
7 Tutte le opere, I, p. 119.
8 Tutte le opere, I, p. 122.
9 Tutte le opere, I, pp. 122-123.
10 Tutte le opere, I, p. 126.
11 Tutte le opere, I, p. 127.
12 Tutte le opere, I, p. 131.
13 Tutte le opere, I, p. 133.
14 Cfr. Tutte le opere, II, p. 116.
15 Stupenda non ha qui il senso di «mirabile», «bellissima», ma di «oggetto di stupore».
16 Tutte le opere, I, p. 134.
17 Cfr. La filosofia di Leopardi, Roma, Religio, 1940, pp. 160-161. Naturalmente la suggestiva interpretazione del Tilgher finisce per dare al Coro (come all’Infinito e al brano centrale della Vita solitaria) una preminenza eccessiva rispetto ad altri grandi canti e non manca di pericolosi avvii all’idea di una poesia di “religiosità negativa” piú negabile che discutibile.
18 Cfr. G. Leopardi, Operette morali, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., p. 437.
19 Tutte le opere, I, p. 134.
20 Tutte le opere, I, pp. 134-135.
21 Tutte le opere, I, p. 135.
22 Tutte le opere, I, p. 135.
23 Tutte le opere, I, pp. 136-137.
24 Tutte le opere, I, p. 137.
25 Tutte le opere, I, pp. 148-149.
26 Tutte le opere, I, p. 149.
27 Tutte le opere, I, p. 141.
28 Tutte le opere, I, p. 141.
29 Tutte le opere, I, p. 141.
30 Cfr. Le ricordanze, vv. 169-170.
31 Le ricordanze, vv. 149-151.
32 Tutte le opere, I, p. 149.
33 Tutte le opere, I, p. 150.
34 Tutte le opere, I, p. 150.
35 Tutte le opere, I, p. 151.
36 Cfr. G. Gentile, «Le Operette morali», in Manzoni e Leopardi, 2a ed. riveduta e accresciuta, Firenze, Sansoni, 1960, pp. 105-157. Il testo, pubblicato originariamente negli Annali delle Università Toscane, Pisa, 1916, apparve poi come proemio a G. Leopardi, Operette morali, con proemio e note di G. Gentile, Bologna, Zanichelli, 1918.
37 Tutte le opere, I, p. 151.
38 Tutte le opere, I, p. 151.
39 Tutte le opere, I, p. 152.
40 Tutte le opere, I, p. 152.
41 Tutte le opere, I, p. 154.
42 Tutte le opere, I, p. 152.
43 Tutte le opere, I, p. 156.
44 Tutte le opere, I, p. 156.
45 Tutte le opere, I, p. 156.
46 Tutte le opere, I, p. 157.
47 Tutte le opere, I, p. 157.
48 Tutte le opere, I, pp. 157-158.
49 Cartone, vv. 608-612.
50 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., p. 42.
51 Secondo la tesi del Bigi in «Dalle Operette morali ai “grandi idilli”», in La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi cit., pp. 81-112 (già pubblicato in «Belfagor», n. 2, 1963, pp. 129-149).
52 Tutte le opere, II, p. 1132.
53 Tutte le opere, II, p. 1132.